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Appena passeranno i tempi di guerra i vuoti settoriali saranno colmati rapidamente. Da chi?

 

Se si vuole analizzare il vuoto di mercato lasciato dall’Occidente in Russia come risposta all’invasione dell’Ucraina, occorre fare un passo indietro e fare i conti con la natura dell’economia russa che condiziona effetti e prospettive future.

La Russia non è un Paese libero economicamente, tanto che l’Heritage Foundation ha collocato Mosca al 43° posto su 45 paesi europei nell’Indice della libertà economica: gli unici due indicatori positivi, che non trascinano il Paese al 130° posto al pari dell’Angola, sono la bassa pressione fiscale e la solidità del bilancio determinata da un basso debito pubblico.

Indicatore questo che però ora non aiuta l’economia russa visto che Moody’s ha recentemente tagliato e declassato il rating di Mosca, affermando che la decisione è stata “guidata da gravi preoccupazioni circa la volontà e la capacità della Russia di pagare i suoi obblighi debitori”. Inoltre il quadro economico e statale russo è oligarchico e tra i meno capitalisti al mondo, con una moneta debole e un livello di corruzione interno agli ingranaggi governativi e amministrativi elevatissimo.

Tutto ciò rende l’economia russa indifesa davanti allo tsunami Putin: se già parlavamo di un Paese non libero, ora in piena economia di guerra, lo spazio di mercato si restringe drammaticamente visto che gran parte della capacità produttiva viene destinata allo sforzo bellico che attualmente si sposta su tutti i domini, compreso il quinto, quello cibernetico e informatico.

Se a questo quadro di insieme aggiungiamo la fuga dei colossi e delle industrie occidentali (Ikea, Volkswagen, Lego, Nike, Toyota, Apple, British Petroleum, TotalEnergies, Shell, Equinor, Eni, Maersk, Daimler Truck Holding, Harley-Davidson, Volvo, Netflix, Samsung, Exxon Mobil, Siemens, TikTok, Spotify, McDonad’s, Zara, Visa, Mastercard, Baker McKenzie, le quattro Big Four di consulenza…), l’esclusione della finanza russa dal circuito globale dei pagamenti bancari (Swift), le sanzioni europee, il crollo verticale del rublo, l’inflazione alle stelle e una politica monetaria sbagliata come risposta allo shock destabilizzante, allora le previsioni economiche e di mercato future risultano funeste e incerte nel breve periodo, strategiche nel lungo.

Nel breve periodo si scontano ovviamente gli effetti economici di un conflitto in essere e il crollo dell’economia russa, vicina al default, che incide sensibilmente sull’attrattività degli investimenti, specialmente cinesi: perché se è vero che nel mercato il vuoto non esiste e che ogni assenza viene rimpiazzata da una nuova offerta di prodotti o servizi, la guerra e il crollo del Rublo hanno messo a dura prova anche i rapporti privilegiati con Pechino. Il Financial Times ha recentemente riportato dati significativi del mercato russo-cinese degli smartphone: l’esodo dei colossi occidentali, da Apple a Samsung, doveva aprire praterie ai produttori cinesi (Xiaomi, Oppo e Huawei) che invece dallo scoppio della guerra hanno dimezzato le loro forniture. Un esempio su tutti per dimostrare come con il crollo del Rublo vendere alla Russia senza subire perdite sia praticamente impossibile quindi, nel breve periodo, gli investimenti cinesi saranno decisamente selettivi e non aggressivi, fatta eccezione per un settore in particolare: il digitale. Si voglia la volontà di Mosca di controllare centralmente le comunicazioni informatiche (intranet nazionale “Rucom”; Vkontakte, Viber, Yandex, etc…), si voglia la capacità di Pechino di riempire con i suoi servizi finanziari l’esclusione della Russia dai circuiti Mastercard e Visa (fornendo carte della cinese UnionPay e circuito Cips basata sul renminbi), il vuoto nel mercato digitale è ancora più volatile e facile da colmare, si muove ad un’altra velocità, su piani paralleli rispetto all’economia reale.

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